L'opera

Andrea Delija Pipniku - 12 dicembre 2018

La ricerca dell’identità caratterizza l’intero arco di vita di ogni uomo, un processo messo in atto naturalmente dal singolo così come dalla collettività. Essa prende la forma di un faro irraggiungibile in un orizzonte remoto, se si ripercorre la storia del popolo albanese, la cui formazione identitaria è stata da sempre soggetta a soffocamenti da parte di forze esterne.
L’occupazione dell’impero Ottomano, durata 500 anni, ancora oggi rappresenta una chiave di lettura alle problematiche della formazione identitaria di questo popolo. Permane infatti la risonanza di un’oppressione così profonda e duratura anche nella società odierna, una società che si presenta alla lettura dell’osservatore sfaccettata, variegata, frammentata: un agglomerato di culture e religioni.
Come i diversi capitoli di un libro, che pur facendo parte di un insieme narrano storie a sé stanti, frange della società albanese raccontano vicende storiche consumatesi in un lontano passato, che convivono tutt’ora più o meno intrecciate tra esse.
Narrano gli albanesi cristiani che hanno preservato la propria fede nella propria terra, o in terre altrui dando luogo alla cosiddetta “diaspora degli albanesi”, che vede come ulteriori testimoni di queste vicende gli arberesh dell’Italia meridionale. Narrano di albanesi di fede islamica e di etnia turca o di musulmani albanesi frutto delle conversioni passate per accondiscendere alla politica governativa del dominatore. E narrano poi gli albanesi che hanno aderito, in parte coscientemente in parte passivamente, all’intollerabilità atea degli anni del comunismo. Certo è che tali vicende e diversità trovano un nodo importante ed altrettanto critico nella religione. Elemento fondamentale per poter scandagliare la natura delle società passate, la religione è parte integrante di esse e caratterizza l’identità di un popolo: aveva valenza di legge, scandiva le varie fasi del tempo e concorreva alla costituzione del volto urbanistico del territorio (vi furono chiese, poi chiese e moschee e poi chiese e molte moschee).
Si possono evincere con chiarezza le difficoltà culturali che si presentarono alla ricerca di un’identità albanese attuata dai padri dell’indipendenza. La Rilindja, il Risorgimento albanese, si pone tale problema a fronte di una necessaria unità per potersi divincolare dalla presa di un impero che gravava sui Balcani dal XIV secolo.
Come allora Skanderbeg, insieme ai principi albanesi riuniti sotto il vessillo dell’aquila bicipite della sua casata, oppose una leggendaria resistenza al dominatore ottomano, i patrioti del XIX secolo anelano la liberazione, che ufficialmente avverrà nel 1912. Intellettuali e politici vedranno in Skanderbeg un emblema nel quale concretizzare l’unione albanese.
Ma vi sono differenze sin nell’ossatura: nell’Albania del risorgimento convivono diverse fedi e i suoi stessi protagonisti rispondono a diverse confessioni religiose. Dunque l’elemento “religione” viene omesso nel processo di costruzione identitaria e reinventato nel cosiddetto “albanismo” (shqiptari), concetto che identifica l’appartenenza al popolo albanese.
Ciò implicava un comune idioma e un simbolo nel quale riconoscersi, la figura di Skanderbeg.
Questi gli elementi principi che vengono assemblati, ma non legati: essi perdono la loro completezza perché svaniscono le orme del loro passato, delle loro radici: Skanderbeg diventa il volto della lotta per l’indipendenza di un popolo la cui identità è in via di definizione e viene relegando in un angolo il profilo di un eroe che in vita lottò per la libertà del proprio popolo difendendone la fede, tanto da valergli l’appellativo di Atleta Christi - il campione di Cristo - da parte di Papa Callisto III.
Perché quello di Giorgio Castriota Skanderbeg è un albanismo di indole cristiana, è l’indomabile volontà di preservare la fede quale connotato preponderante dell’identità del popolo albanese, è il temperamento di chi non considera compromessi e sceglie orgogliosamente di non piegarsi al nemico anche quando il piegarsi si delinea come unica via di uscita.
È l’albanismo del Kanun, non una semplice raccolta di norme, ma la concretizzazione di valori quali la fedeltà, la libertà e l’onore; un codice che fa da legante nella convivenza tra vari clan e tra l’individuo e la società.
Sarà la manifestazione di chi respingerà l’idea del controllo da parte dello straniero, dell’invasore o di un governo nel quale non si riconoscerà, come accadrà nel periodo del comunismo di Hoxha. E ciò si rispecchia nella scelta fatta dagli uomini del nord, che per sfuggire alle pressioni ottomane si ritirarono nelle montagne impervie dell’Albania settentrionale, chiudendosi in quell’isolamento che permetterà una sorta di istinto di conservazione delle proprie tradizioni.
Questo è l’albanismo che impregna i soggetti delle rappresentazioni di Lin Delija: nel suo linguaggio pittorico “Albania - cristianità” diventa un unico lemma.
Lo vediamo in san Michele e il diavolo, opera del 1975. La figura del santo, capo supremo dell’esercito celeste, si erge imponente, avvolto nelle sue immense ali, e respinge il diavolo, una figura scura quasi amorfa che sembra precipitare oltre la delimitazione della rappresentazione stessa.
Un soggetto noto dell’iconografia cristiana rappresentato qui in una variante nuova: il santo veste i panni tipici del costume albanese e diventa nodo centrale dell’accostamento Albania-cristianità.
Lo vediamo nella Madonna degli albanesi, realizzato nel 1970, dove la madonna col bambino troneggia in mezzo ad una folla di credenti in atteggiamento di adorazione.
La folla, oltre ai due alti prelati che affiancano il trono, affrontandosi e dando solidità alla rappresentazione piramidale, è costituita da personaggi in costume e, in lontananza, come fosse l’eco di un passato che sopravvive al tempo, la figura di Skanderbeg, con l’inconfondibile elmo sormontato dalla testa di capra con lunghe corna.
La Madonna stessa è abbigliata all’albanese e risalta, come elemento calamitante lo sguardo dell’osservatore, lo sfolgorante rosso della mantella, che si staglia sul complementare verde dello schienale del trono. Il volto, dall’espressione estatica, è eredità diretta dell’iconografia classica di questo soggetto, mentre i tratti somatici celano un richiamo antropologico.
Il bambino che tiene in grembo, con le mani congiunte in preghiera, ottenuto per campiture piatte e con un tono tenue del carnato, sembra riproporre la sua stessa forma nel bambino che vediamo in primo piano ai piedi del trono, e il rapporto tra i due diventa traslazione figurativa del passo della Genesi “Dio creò l’uomo a sua immagine” (Genesi 1,26).
Nelle due figure si percepisce la stessa innocenza, ma uno si erge sopra tutti gli altri, solido tra le braccia della Madre, e si colloca nella fascia superiore del dipinto, dove è presente solo il manto blu del cielo. Il secondo è in mezzo ed è parte della folla: potremmo riconoscere in lui un orfanello tra i pellegrini venuti a celebrare la madre di Dio.
Sempre più l’universo simbolico di Delija sembra essere strutturato su solidi binomi figurativi: la fede viene “vestita” con gli elementi della cultura popolare albanese e allo stesso tempo la cultura di un popolo diventa testimonianza della fede. Il divino diventa umano e l’umano diventa portatore diretto del verbo divino.
La rappresentazione gode di una solidità intrinseca, ottenuta tramite stesure piatte e l’accurato accostamento dei colori - bianchi, rossi, bruni, blu -, procedura chiave per poter rendere il mezzo pittorico veicolo diretto dell’espressione interiore dell’artista, tipico della corrente espressionista.
Ma Delija non fa parte di quegli artisti che si possono facilmente confinare nell’ espressionismo, seppure questo emerga quale linea guida e arteria principale nella quale si muove il suo flusso creativo.
Nel pittore albanese è preponderante la presenza dell’elemento simbolico, proposto tramite tipi, espressione e movenze dei personaggi, ma anche tramite la componente più concettuale del segno: rapidi tocchi di pennello giustapposti diventano la conformazione di un volto e l’idea diviene immagine. È così che ci viene riproposta la figura di Skanderbeg.
L’anno 1946 segnò, con la proclamazione della Repubblica popolare d’Albania, l’inizio dello stato totalitario di Enver Hoxha, il quale aveva già avviato un processo di prosciugamento dell’identità culturale per poterne sovrascrivere una nuova, di stampo comunista.
Già dopo la presa del potere, nel 1944, veniva messo in atto un programma di reinvenzione della società, che passava attraverso l’eliminazione della classe intellettuale e della religione.
Chiese e moschee vengono distrutte o adibite a magazzini o palestre, i ministri di culto vengono perseguitati, mentre il comune cittadino è assoggettato a ferree regole di comportamento che portano all’aborto dell’espressione artistica, letteraria, politica e spirituale. La trasgressione di queste regole comportava condanne pesantissime.
Sembrano quasi surreali le testimonianze di chi ha vissuto quel periodo di terrore e isolamento, che rivelano la natura proibizionista del regime in tutti gli aspetti della vita quotidiana: bastava cantare una canzone straniera per strada per essere tacciato di spionaggio o etichettato come traditore della patria e pagare questo “oltraggio” con la reclusione.
Hoxha governava con il terrore: gli arresti, le deportazioni, le fucilazioni, le impiccagioni e le torture erano gli strumenti principali per mantenere l’ordine pubblico.
Amik Kasoruho, scrittore che durante gli anni del regime venne arrestato e incarcerato per presunta apologia sovversiva, scrive: “in nessun altro paese al mondo, in così breve tempo, dal 1944 alla fine del 1948, furono arrestati, deportati, fucilati, così tanti cittadini in rapporto al totale della popolazione”.
Spesso religione e cultura coincidevano in un’unica figura, quella del prete cattolico: fu uno degli obiettivi privilegiati della politica repressiva, che in quegli anni si macchiò dell’eccidio di numerosissimi preti e dell’internamento di altri.
Nel mirino finirono quei soggetti che per cultura e intelletto erano custodi del nucleo identitario di un popolo: colpendo la fede cristiana si colpiva l’occidente “corrotto” e si spazzava via un baluardo identitario che per secoli era sopravvissuto all’estinzione.
Si porterà dietro la memoria di queste vicende Lin Delija, quando nel 1948, durante la leva militare, varcherà i confini nazionali per sfuggire alla dittatura, per giungere in prima battuta in Jugoslavia.
L’atto di diserzione ricadrà pesantemente sulla famiglia, alla quale il regime non risparmierà la deportazione nel campo di Tepelena, dove le condizioni di permanenza erano estreme.
Nel 1950 l’artista si rifugia in un convento di suore a Zagabria e quattro anni dopo arriva in Italia, dove consegue gli studi all’Accademia di belle arti di Roma, diplomandosi nel 1959.
Ha inizio così la sua permanenza nel Bel paese, dove vivrà fino all’anno della sua morte, avvenuta nel 1994. Qui maturerà la sua pittura anche in relazione ad una realtà aperta e poliedrica quale si presentava la scena artistica italiana in quegli anni. Gli stimoli percepiti in un paese libero e culturalmente ricco erano nell’aria, in special modo nelle principali città, come Roma e Milano, dove egli visse.
Fedele al concetto figurativo, respinse l’idea di un’arte troppo ancorata al consumismo, che dopo gli anni ’50 caratterizzerà la società occidentale. La sua pittura si sveste di tali istanze per focalizzarsi prevalentemente sul mondo culturale della sua terra natia e sulle vicende che in quegli anni la stavano attraversando - lontano dagli occhi di tutti - nonché sulla condizione esistenziale dell’individuo. Così affida alla pittura il compito di trascrivere i disordini del suo mondo interiore, i tumulti della sua anima.
Questo processo necessita naturalmente di una chiusura, non quale atto di sordità culturale, quanto bisogno primordiale di sondare i meandri più profondi della propria personalità, attorno alla quale orbitano pensieri, angosce e ricordi.
Votato all’arte, rientra in un bisogno simile la scelta di trasferirsi, nel 1962, ad Antrodoco, un piccolo paese nel reatino ai piedi del Monte Giano. Questa piccola località, dove il tempo sembra essersi fermato e la semplicità della vita rende le cose più intime, gli sarà congeniale per elaborare i suoi soggetti, lontano dalla confusione delle realtà metropolitane, «fuori dai rumori delle grandi città», come dirà lui stesso nel documentario dedicatogli dalla Rai nel 1979, realizzato dal regista kosovaro Gjon Kolndrekaj.
Ad Antrodoco incontrerà, dopo il 1980, la compaesana Madre Teresa di Calcutta e la ritrarrà più volte nel suo studio. Mentre in Albania, sin dai primi anni di costituzione del regime comunista, si dà libero sfogo ad una delirante distruzione di icone, oggetti sacri, reliquie ed intere biblioteche, portando avanti l’opera di azzeramento del patrimonio culturale, Delija si adopera per l’edificazione di una memoria culturale albanese. Se da una parte si manifestano azioni politiche dirette verso una decostruzione, dall’altra le scelte artistiche del pittore sono mirate alla ricostruzione del volto di un popolo, le cui radici sono antiche e l’essenza rischia di essere perduta ancora una volta.
Per mezzo dell’arte egli crea un ponte comunicativo tra passato (Giorgio Castriota) e presente (Madre Teresa di Calcutta), con l’intento di preservare l’identità albanese.
È un artista che penetra l’epidermide e richiama immagini ancestrali, facendo sì che dialoghino con le icone del presente. Ne trae così una spina dorsale che le vicende storiche avevano spezzato e che tiene insieme l’Albania del passato e quella che ne è sopravvissuta, l’Albania di respiro occidentale e di fede cristiana.
Gli eroi del presente di cui decanta le gesta sono gli ecclesiastici che vennero sottoposti ad atroci condizioni e che subirono torture inenarrabili, quando non vennero lasciati spirare in carcere o impiccati. La straziante e schietta rappresentazione di queste vicende prende forma nel dipinto “Impiccagione dei sacerdoti” del 1970.
Un quadro non può essere fruito attraverso la sua riproduzione in un catalogo, ma esige di essere visto di persona, di instaurare un contatto diretto con esso.
Chi scrive ha avuto la fortuna di fare questa esperienza e di trovarsi a tu per tu con l’opera: la violenza di questa rappresentazione non lascia spazio a qualsivoglia descrizione, perché dotata di un impeto tale da far calare il silenzio in chi guarda. Molte opere di Delija sono d’impatto, ma trovarsi davanti all’impiccagione dei preti significa affacciarsi alle atrocità commesse nell’Albania comunista, vuol dire vedere ad occhi nudi la crudeltà.
È un’immagine, questa, che percuote violentemente la coscienza di chi la guarda e scava tanto nell’interiorità da lasciarvi soltanto il vuoto.
La composizione è semplice ma ben strutturata e si divide in due registri: la parte sinistra preserva una staticità angosciante, con un fondo claustrofobico ottenuto con pesanti pennellate di grigio ed interventi di blu, che rendono lo spazio in cui sono contenuti i sacerdoti livido. I due ecclesiastici pendono come sagome leggere dalla forca e diventano tutt’uno con il loro strumento di morte: esanimi figure umane che hanno perso tutto ciò che appartiene al mondo terreno. L’elemento cromatico, affidato a tinte brune e violacee, sottolinea il loro stato.
Dall’altra parte il nervosismo del gesto pittorico implode nelle irregolari pennellate che fanno da sfondo alla terza figura. Un corpo deturpato che di umano poco conserva è legato ad una sorta di stollo (o al fusto di un albero) e, in contrasto con la prima parte, qui il movimento è esasperato: la figura sembra dimenarsi in preda al delirio, nel tentativo forse di liberarsi dalla stretta delle corde che lo rendono schiavo del proprio destino. O forse sono le ultime fasi della sua esistenza: quegli attimi in cui il corpo cerca con ostinata difficoltà di trattenere gli ultimi afflati di vita. Incapace ormai di gridare, emette un raccapricciante verso bestiale.
Questa figura - che può essere identificata nel Cristo stesso - è la testimonianza di quella disumanizzazione perpetrata dai ministri di morte della dittatura. Strati di pennellate di un rosso svilito, come se anche il colore avesse perso la sua forza materica, si mescolano con la figura del condannato in una rumorosa confusione grafica, facendosi grafia nella parte inferiore del dipinto, dove riconosciamo “izmi”, suffisso del termine albanese “Komunizmi”.
Individuiamo così nell’opera di questo pittore due poli di una stessa sfera: egli narra gli albanesi eroici di epoche lontane, che forti e temerari hanno preservato la propria identità culturale, e narra gli albanesi del suo tempo che hanno custodito tale identità a discapito della propria vita.
Se Lin Delija passerà alla storia lo si saprà con più certezza negli anni a venire, augurando vita lunga all’associazione culturale a lui dedicata, la quale ha dato inizio all’opera di riabilitazione di quest’artista.
Con maggiore certezza però, possiamo dire che egli è stato tra i pochissimi albanesi che tramite la sua arte ha contribuito in prima linea alla conservazione dell’identità più autentica del popolo albanese.