LIN DELIJA nella SEZIONE SPECIALE di "Frammenti di un inconscio condiviso"

Lin Delija: dolore ed empatia di Alessandra Scipione

 

Lin Delija[1], pittore albanese naturalizzato italiano, ebbe modo durante la sua esistenza di entrare in contatto con le più disparate forme di dolore e sofferenze. Non potendo in questa sede narrare per intero le sue travagliate vicende, rimando, per chi fosse interessato, al sito ufficiale dedicato al maestro www.lindelija.it.

La sua vita fu segnata, alla fine degli anni Quaranta, dal distacco forzato dalla sua famiglia e dalla patria, sopraffatta in quegli anni dal regime comunista di Enver Hoxha[2]. Il pittore in fuga dall’Albania arrivò in Italia attraversando il confine triestino – goriziano, giunse poi a Roma ed in fine ad Antrodoco, piccolo paese in provincia di Rieti, dove si stabilì definitivamente.

 In questo nuovo mondo, Delija, trovò una nuova pace per il corpo, non più costretto a fuggire da persecuzioni e soprusi, libero dalla paura e dalla fame, assistito dal popolo antrodocano che fu sempre ben lieto di provvedere nei modi più disparati al suo sostentamento.

Terminate così le tribolazioni del corpo, sopravvennero quelle dell’anima; la nostalgia per la sua umile famiglia e l’abbandono degli usi e costumi dell’amato popolo albanese lo portarono a confrontarsi per tutta la sua esistenza con la condizione dell’esule in terra straniera.

La profondità delle sue ferite è custodita nei ricordi di chi ad Antrodoco gli fu vicino, ed ovviamente nelle sue opere. Tralasciando quelle che narrano il dramma cristiano, Delija riuscì a trasportare il suo turbamento interiore anche nella rappresentazione di alcuni ritratti di soggetti antrodocani, mischiando inevitabilmente le proprie porzioni di dolore con quelle del soggetto raffigurato.

È il caso dei due ritratti scelti per questa sezione speciale; essi sono il frutto dell’anima turbolenta dell’artista che guarda e dipinge altre anime afflitte da disordini interiori e segreti.

La prima opera, un olio su tela risalente agli anni Sessanta, presenta un uomo di mezza età con i gomiti sul tavolo e le mani raccolte sul piano, gesto in psicologia assimilato alle persone che covano un conflitto interiore ma allo stesso tempo non vogliono mostrare sentimenti di negatività o tensione nei confronti di una determinata situazione. Delija in questo caso abbozzò solo leggermente la fisicità del soggetto ed il contesto in cui inserirlo, mentre indugiò molto sui lineamenti e le espressioni del viso, mostrandoci un uomo calvo con i lineamenti spigolosi, bloccato nel suo status di annoiata e perplessa attesa, gli occhi non si volgono allo spettatore ma fuggono verso un punto a noi ignoto. È lì fingendo una calma apparente, ma in realtà la noia e il vortice delle emozioni interiori lo rapiscono e lo anestetizzano allo stesso tempo, facendo arrivare a noi proprio questa forma ovattata di un’emozione portata alla luce attraverso l’immobilità della scena.

La seconda opera esposta ci dà l’occasione per riflettere sui rapporti interpersonali che Delija instaurò ad Antrodoco nel trentennio in cui vi abitò fino alla sua morte. Parliamo di una tempera su tavola realizzata nel 1978 che ritrae l’antrodocano Natalino Natalini, personaggio ricordato da tutti i compaesani con molto affetto, sia per la sua personalità un po’ fuori dalle righe, sia per la morte tragica a cui andò incontro. Il poveretto, infatti, venne ritrovato morto bruciato a “li majuri” località nei pressi di Antrodoco dove molti dei miei concittadini coltivano tutt’oggi la terra. Probabilmente, come spesso accade, un piccolo fuoco artificiale acceso per bruciare erbacce secche, sfuggì al controllo dell’uomo che nel tentativo di controllarlo ne rimase vittima.

Chi ricorda Natalino lo fa raccontando le sue stravaganze, come quella di raccogliere le cicche per strada (oggi più che una stravaganza sarebbe considerata una squisita virtù), attività che gli farà guadagnare il soprannome “lu cicchettaru”. Inoltre, questo personaggio realizzava corone e cuscini per i defunti, compito che in un modo o nell’altro lo metteva quotidianamente in contatto con quella parte buia e ignota della vita di ogni essere umano. Parallelamente però, dimostrando una gran buona volontà, “lu cicchettaru” lavorava anche nel piccolo cinema cittadino ricoprendo il ruolo della “maschera”, ovvero colui che accoglie il pubblico e strappa i biglietti ai visitatori per l’accesso in sala.

Queste varie attività devono aver contribuito a generare una personalità turbolenta, in grado di destreggiarsi tra i dolori della morte e le delicatezze dell’arte cinematografica, poiché suppongo, avesse avuto spesso modo di guardare le pellicole proiettate nel cinema in cui era impiegato.

Delija in questa opera sceglie di rappresentarlo a figura intera, in una posa che trasmette tutta la timidezza delle persone un po’ introverse, che hanno un loro cosmo dentro, ma pochi mezzi per esprimerlo;  le scarpe sembrano più grandi del dovuto e la maglia sembra corta sulle maniche, come se anche questa non fosse della giusta taglia, facendo desumere lo stato sociale umile di chi, anche facendo più lavori e coltivando un poco d’orto, restava sempre parte di quella cittadina rurale che era Antrodoco negli anni Settanta. Il dipinto è investito di luce, eppure sul volto dominano delle ombre che non permettono una chiara lettura della sua espressione, assorta in un mondo che non ci è dato vedere.

Lin Delija nel corso della sua carriera ritrasse moltissimi soggetti con personalità fuori dagli schemi, vittime di dolori segreti o di gioiose apparenze covanti invece forti depressioni. Fu il caso del ritratto alla cantante italiana, naturalizzata francese, Iolanda Cristina Gigliotti[3], conosciuta come Dalida, dalla cui opera si evince tutto il malessere psicologico provato dalla donna poco prima del suicidio avvenuto nel 1987.

Il maestro conosceva bene la sofferenza causata dall’incomunicabilità dei sentimenti, il dolore e il turbamento. Li individuava facilmente nelle persone che lo circondavano, siano state esse umili genti del paese o dive dell’alta società. Anche lui fu spesso vittima di personali conflitti interiori che non raramente si tramutarono in sfuriate con amici e conoscenti; molti lo ricordano per la sua appassionata voglia di vivere, di cantare, e per il suo amore verso l’arte; ma anche per la sua irascibilità e superbia. Insomma, un uomo come tutti noi, vittima di sé stesso; incapace di padroneggiare le passioni umane che ogni giorno ci invadono e che tutti conosciamo, rendendoci così assai simili gli uni agli altri, al di là delle differenti culture e terre di appartenenza.



[1] Scutari 1924 - Roma 1994.

[2] Argirocastro 1908 - Tirana 1985, è stato un rivoluzionario, politico e militare albanese, dittatore dell’Albania dalla fine del secondo conflitto mondiale fino alla sua morte.

[3] Il Cairo 1933 - Parigi 1987.